Il paradosso della Honda: alla fine Rossi non aveva tutti i torti.
8 Gennaio 2021Era la fine del 2003 quando Valentino Rossi, stanco della Honda, si lanciò nella sfida Yamaha. A distanza di anni, rileggere le parole del pilota di Tavullia porta ad una riflessione non indifferente sul team HRC

In Honda la cosa più importante è l’affermazione della propria tecnologia, da sviluppare attraverso le corse per poi trasferirla sul prodotto di serie. In Honda l’importante è dimostrare che si vince per merito della moto, quindi è necessario chiudere le gare col primo, il secondo e il terzo posto. Se vincevo io andava bene, ma se lo facevano Gibernau e Biaggi andava bene lo stesso. Forse erano anche più contenti, in questo caso, perché in quel modo potevano far vedere che la loro moto “clienti” era una moto vincente. Io l’ho capito da solo, ma per togliermi ogni dubbio me lo sono fatto dire da loro. Dai vertici del team. “Eh sì, in effetti il nostro obiettivo è che si faccia primo, secondo e terzo in tutte le gare. Noi vogliamo che ci siano tre Honda sul podio, sempre!” (Valentino Rossi)
Il libro autobiografico “Pensa se non ci avessi provato” pubblicato nel 2005, che racconta la carriera del pilota n° 46 fino alla fine del 2004, contiene delle dichiarazioni importanti di Valentino Rossi sul mondo Honda rivolte ai primi anni duemila, periodo in cui il pilota di Tavullia ha vinto tre mondiali. Erano gli anni del passaggio dalla 500 alla MotoGP, anni in cui la Honda rappresentava sicuramente il modello di riferimento della classe regina.
Già in quegli anni – un po’ come oggi – il valore dei vari piloti veniva messo in discussione. Vincere con la Honda era sinonimo di “vincere facile”. Lo stesso Valentino veniva accusato per il semplice fatto di aver conquistato i suoi titoli con la miglior moto del lotto. Proprio queste “critiche” lo portarono a cambiare lido, accettando la proposta della Yamaha.
Il grande paradosso enunciato nel titolo è il cambio di mentalità che ha portato la Honda dall’imporre la sua tecnologia come modello dominante, all’affidarsi al polso destro di un pilota in particolare: Marc Marquez. Il 2020 è una prova evidente a favore di questa tesi. Senza il suo marziano in pista, il team giapponese ha mostrato tutti i segreti di pulcinella che i titoli di Marc Marquez nascondevano. C’è voluto del tempo per permettere a Nakagami e ad Alex Marquez di poter disporre di una moto più semplice da guidare. Perché lo stile di guida del nove volte campione del mondo è semplicemente unico.
In quindici anni cambiano tante cose, è un normale processo di evoluzione. Però alla fine anche la Honda si è dovuta ricredere. Perché se nel 2003 i competitor non erano – con ogni probabilità – all’altezza, e la vittoria di un pilota o di un altro creava totale indifferenza, quest’anno anche il team giapponese ha avuto la dimostrazione che senza il giusto binomio non si vince. Perché anche il Motomondiale è uno sport di squadra, e vince non solo chi ha la moto migliore, ma anche chi ha il pilota migliore. O almeno la moto più adatta allo stile del pilota migliore. E forse alla fine Rossi non aveva tutti i torti. Basta vedere com’è finito il 2020 della Honda.